beauvoir e il secondo sesso

... non si tratta di felicità, ma di libertà ...
Simone De Beauvoir compare, con Sartre, nel dipinto I funerali di Togliatti di Renato Guttuso.

INTRO

Quante sono le donne al vertice? Quante ottengono l’uguaglianza? Lo scopo del femminismo non è quello di garantire alle donne privilegiate la stessa remunerazione, lo stesso status della controparte maschile della loro classe. Questa non è uguaglianza: è una sorta di parità fra ineguali. Se vogliamo una società veramente egalitaria, è necessario cambiare le strutture istituzionali. Abbiamo “liberato” le donne bianche della classe media, per poter permettere loro di lavorare a tempo pieno, delegando così una parte delle loro mansioni a donne sottopagate. Se la “liberazione” delle donne viene fatta sulla pelle di altre donne, allora non è un femminismo per tutte.  
Che senso ha rivendicare i diritti delle donne, in questo contesto?
Il femminismo liberale ha prodotto il risultato che, a fronte di poche donne in carriera, che riescono a scalare i vertici delle istituzioni, dei luoghi di lavoro, della vita pubblica, c’è la grande massa delle donne la cui vita peggiora. 
Che te ne fai della possibilità teorica di fare carriera, se nei fatti sei precaria e sottopagata; sei respinta perché straniera o discriminata perché nera; ti ammali perché l’ambiente è inquinato; sei costretta a scappare da guerre di cui non capisci le ragioni?
Le radici del nuovo femminismo sono nelle battaglie per la giustizia sociale portate avanti anche dopo le riflessioni, scritte sotto anfetamine, di Simone De Beauvoir raccolte nel volume del 1949 Le deuxième sexe dove la filosofa ha approfondito i temi legati alla condizione femminile. Il libro è stato un successo dal punto di vista editoriale, un evento che suscitò polemiche da ogni parte, dai cristiani ai comunisti, passando per l'ambiente giornalistico, il Vaticano mette il libro all'indice, ci vorrà poi la rivolta dei campus americani, e del'68, perché questo libro diventi un breviario del femminismo. Beauvoir respinge tutti i determinismi che minano l'ipotesi della completa libertà di scelta della donna: dal determinismo biologico a quello del materialismo storico fino a quello della psicoanalisi.
Smonta gli "strani romanzi" maschilisti, misogini e fallocratici di Freud il quale pensa le donne a partire dal suo maschilismo, definendole privi del pene, e architetta l'incredibile finzione del complesso di Edipo, sviluppa l'inverosimile fantasia del complesso di castrazione, o la delirante teoria degli stadi. 

BAGAGLIO

* Esistenzialismo 
* Socialismo
* Le filosofie femministe: due secoli di battaglie teoriche e pratiche, 
  Adriana Cavarero, Franco Restaino
* Femminismo per il 99%. Un manifesto, Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya, Nancy   
  Fraser

STRUMENTI

* Il secondo sesso di S. De Beauvoir
* Coscienze ribelli di Michel Onfray

DESCRIZIONE

IL VIDEO

Cosa significa davvero essere una donna? Come vivono le donne lo status che la società riserva loro? Un gruppo di donne, belle o meno, giovani o meno, dotate o meno di istinto materno, risponde davanti alla telecamera di Agnès Varda.

IL TESTO

INTRODUZIONE a IL SECONDO SESSO
Simone de Beauvoir
"L’uomo può pensarsi senza la donna: lei non può pensarsi senza l’uomo. Lei è soltanto ciò che l’uomo decide che sia; così viene definita “il sesso”, intendendo che la donna appare essenzialmente al maschio un essere sessuato: la donna per lui è sesso, dunque lo è in senso assoluto. La donna si determina e si differenzia in relazione all’uomo, non l’uomo in relazione a lei; la donna è l’inessenziale di fronte all’essenziale. Egli è il Soggetto, l’Assoluto: lei è l’Altro."
Ho esitato a lungo prima di scrivere un libro sulla donna. Il soggetto è irritante, soprattutto per le donne, e non è nuovo. Il problema del femminismo ha fatto versare abbastanza inchiostro, ora è praticamente esaurito: non parliamone più. Tuttavia se ne parla ancora. E non pare che le voluminose sciocchezze spacciate durante l’ultimo secolo abbiano fatto gran luce sul problema. D’altra parte c’è davvero un problema? Qual è? E poi si può dire ancora che vi siano delle 'donne'? Certo la teoria dell’eterno femminino conta numerosi adepti, che mormorano: “Perfino in Russia, le donne restano donne”; ma altri, bene informati – talvolta sono gli stessi – sospirano: “La donna si perde, la donna è perduta”. Non è più chiaro se vi siano ancora donne, se ve ne saranno sempre, se bisogna augurarselo o no, che posto occupano nel mondo, che posto dovrebbero occuparvi. “Dove sono le donne?” domandava recentemente un periodico. (1) Ma innanzitutto: che cos’è una donna? “Tota mulier in utero: è una matrice”, dice qualcuno. Tuttavia, parlando di certe donne, gli esperti decretano “non sono donne”, benché abbiano un utero come le altre.
Tutti sono d’accordo nel riconoscere che nella specie umana sono comprese le femmine, le quali costituiscono oggi come in passato circa mezza umanità del genere umano; e tuttavia ci dicono che “la femminilità è in pericolo”; ci esortano: “siate donne, restate donne, divenite donne”. Dunque non è detto che ogni essere umano di genere femminile sia una donna; bisogna che partecipi di quell’essenza velata dal mistero e dal dubbio che è la femminilità. La femminilità è una secrezione delle ovaie o sta congelata sullo sfondo di un cielo platonico? Basta una sottana per farla scendere in terra? Benché certe donne si sforzino con zelo di incarnarla, ci fa difetto un esemplare sicuro, un marchio depositato. Perciò, essa viene descritta volentieri in termini vaghi e abbaglianti, che sembrano presi in prestito al vocabolario delle veggenti. Al tempo di San Tommaso, la donna pareva un’essenza altrettanto sicuramente definita quanto la virtù soporifera del papavero. Ma il concettualismo ha perso terreno: le scienze biologiche e sociali non credono nell’esistenza di entità fisse e immutabili che definiscano dati caratteri, come quelli della donna, dell’ebreo o del negro; esse considerano il carattere una reazione secondaria a una situazione. Se oggi la femminilità è scomparsa, è perché non è mai esistita.
Dunque la parola 'donna' non avrebbe alcun contenuto? È ciò che affermano vigorosamente i partigiani dell’illuminismo, del razionalismo, del nominalismo: le donne sarebbero soltanto quegli esseri umani che arbitrariamente si designano con la parola ‘donna’, gli americani in specie sono portati a pensare che la donna come tale non esista più; se un’arretrata si considera ancora una donna, le amiche la consigliano di farsi psicanalizzare per liberarsi di codesta ossessione. Dorothy Parker ha scritto, a proposito di un’opera del resto molto irritante, intitolata: Modern Woman: a Lost Sex: “Non posso essere giusta verso i libri che trattano della donna come tale... Io penso che tutti, uomini e donne, dobbiamo essere considerati esseri umani”. Ma il nominalismo è una dottrina un po’ miope, e gli antifemministi hanno buon gioco nel dimostrare che le donne non sono uomini. Certo che la donna è, come l’uomo, un essere umano: ma questa è un’affermazione astratta; il fatto è che ogni essere umano concreto ha sempre la sua particolare situazione.  
Respingere le nozioni di eterno femminino, di anima negra, di carattere giudaico non significa negare che vi siano, oggi, ebrei, negri e donne: questa negazione non ha per gli interessati un significato di libertà, ma rappresenta una fuga dall’autenticità. È chiaro che nessuna donna può pretendere in buona fede di porsi al di là del proprio sesso. Una nota scrittrice ha rifiutato qualche anno fa di lasciar pubblicare il suo ritratto in una serie di fotografie dedicate precisamente alle donne che scrivono: voleva essere posta tra gli uomini; ma per ottenere tale privilegio, approfittò dell’influenza del marito. Le donne che affermano di essere uomini non rinunciano tuttavia a esigere le attenzioni e gli omaggi maschili. Mi viene in mente una giovane trotzkista, in piedi su un palco, durante una riunione tumultuosa, che voleva fare a pugni, nonostante la sua evidente fragilità; negava la debolezza femminile: ma lo faceva per amore d’un militante al quale voleva rendersi uguale. L’atteggiamento di sfida in cui s’irrigidiscono le americane prova come siano perseguitate dal sentimento della loro femminilità. E in realtà, basta andare in giro con gli occhi bene aperti per constatare che l’umanità si distingue in due categorie di individui, che hanno vestiti, viso, corpo, sorriso, andatura, interessi e occupazioni manifestamente diversi: forse queste differenze sono superficiali, forse sono destinate a sparire. Certo è che per ora esistono con folgorante evidenza.  Se la sua funzione di femmina non basta a definire la donna, se ci rifiutiamo anche di spiegarla con ‘l’eterno femminino’ e se ciò nonostante ammettiamo che, sia pure a titolo provvisorio, ci sono donne sulla terra, dobbiamo ben proporci la domanda: che cosa è una donna?  
L’enunciazione stessa del problema mi suggerisce subito una prima risposta. È significativo che io lo proponga. A un uomo non verrebbe mai in mente di scrivere un libro sulla singolare posizione che i maschi hanno nell’umanità. (2) Se io voglio definirmi, sono obbligata anzitutto a dichiarare: “Sono una donna”; questa verità costituisce il fondo sul quale si ancorerà ogni altra affermazione. Un uomo non comincia mai col classificarsi come un individuo di un certo sesso: che sia uomo, è sottinteso. È pura formalità che le rubriche: maschile, femminile appaiono simmetriche nei registri dei municipi e negli attestati d’identità. Il rapporto dei due sessi non è quello di due elettricità, di due poli: l’uomo rappresenta insieme il positivo e il negativo al punto che diciamo ‘gli uomini’ per indicare gli esseri umani, il senso singolare della parola vir essendosi assimilato al senso generale della parola homo. La donna invece appare come il solo negativo, al punto che ogni determinazione le è imputata in guisa di limitazione, senza reciprocità. Mi sono irritata talvolta, durante qualche discussione, nel sentirmi obiettare dagli interlocutori maschili: “tu pensi la tal cosa perché sei una donna”; ma io sapevo che la mia sola difesa consisteva nel rispondere: “la penso perché è vera”, eliminando con ciò la mia soggettività, non era il caso di replicare: “E tu pensi il contrario perché sei un uomo”; perché è sottinteso che il fatto di essere un uomo non ha nulla di eccezionale. Un uomo è nel suo diritto essendo tale, e la donna è in torto. Praticamente, nello stesso modo che per gli antichi c’era una verticale assoluta in rapporto alla quale si definiva l’obliquo, esiste un tipo umano assoluto, che è il tipo maschile. La donna ha delle ovaie, un utero; ecco le condizioni particolari che la rinserrano nella sua soggettività: si dice volentieri “pensa con le sue ghiandole”. L’uomo dimentica superbamente di avere un’anatomia, che comporta ormoni e testicoli. Egli intende il proprio corpo come una relazione diretta e normale con il mondo che crede di afferrare nella sua oggettività, mentre considera il corpo della donna appesantito da tutto ciò che lo distingue: un ostacolo, una prigione. “La femmina è femmina in virtù di una certa assenza di qualità”, diceva Aristotele. “Dobbiamo considerare il carattere delle donne come naturalmente difettoso e manchevole”; e San Tommaso ugualmente decreta che la donna è “un uomo mancato”, un essere “occasionale”. Proprio questo vuol simboleggiare la storia della Genesi in cui Eva appare ricavata, come dice Bossuet, da un “osso in soprannumero di Adamo”.  L’umanità è maschile e l’uomo definisce la donna non in quanto tale ma in relazione a se stesso; la donna non è considerata un essere autonomo. “La donna, l’essere relativo...” scrive Michelet. E così Benda afferma nel Rapport d’Uriel: “Il corpo dell’uomo ha di per sé un senso, a prescindere da quello della donna, mentre quest’ultimo ne sembra privo se non si richiama al maschio..." L’uomo può pensarsi senza la donna: lei non può pensarsi senza l’uomo”. Lei è soltanto ciò che l’uomo decide che sia; così viene definita “il sesso”, intendendo che la donna appare essenzialmente al maschio un essere sessuato: la donna per lui è sesso, dunque lo è in senso assoluto. La donna si determina e si differenzia in relazione all’uomo, non l’uomo in relazione a lei; la donna è l’inessenziale di fronte all’essenziale. Egli è il Soggetto, l’Assoluto: lei è l’Altro. (3)  
La categoria dell’Altro ha origini remote quanto la coscienza stessa. Nelle società primitive, nelle mitologie più antiche si trova sempre una dualità che è quella dell’Uno uguale a se stesso e dell’Altro; dapprima tale divisione non rivestì un significato sessuale, né si originò da dati empirici. Ciò risulta dai lavori di Granet sul pensiero cinese, da quelli di Dumézil sulle Indie e Roma. In un primo tempo nelle coppie Varuna-Mitra, Urano-Zeus, Sole Luna, Giorno-Notte non è implicato nessun elemento femminile: come non è implicato nell’opposizione del Bene al Male, dei princìpi fasti e nefasti, della destra e della sinistra, di Dio e di Lucifero; l’alterità è una categoria fondamentale del pensiero umano. Nessuna collettività si definisce mai come Uno senza porre immediatamente l’Altro di fronte a sé. Bastano tre viaggiatori riuniti per caso in uno scompartimento perché tutti coloro che viaggiano nello stesso scompartimento divengano degli ‘altri’ vagamente ostili. Per gli abitanti di un paese, chi non appartiene a quel paese è un ‘altro’, di natura sospetta, o uno ‘straniero’; per l’antisemita gli ebrei sono ‘altri’, come lo sono i negri per i razzisti americani, gli indigeni per i coloni, i proletari per le classi possidenti. Alla fine di uno studio assai acuto sulle diverse figure delle società primitive Lévi-Strauss ha concluso: “Il passaggio dallo stato di Natura allo stato di Cultura è contrassegnato dalla tendenza da parte dell’uomo a pensare le reazioni biologiche sotto forma di sistemi di opposizioni: la dualità, l’avvicendamento, l’opposizione e la simmetria, si presentino in forme stabili oppure in forme fluide, non costituiscono tanto fenomeni da spiegare, quanto i dati fondamentali e immediati della realtà sociale”. (4) Tali fenomeni non si capirebbero se la realtà umana fosse esclusivamente un Mitsein basato sulla solidarietà e l’amicizia. Si spiegano invece se si scopre, con Hegel, nella coscienza stessa una fondamentale ostilità di fronte a ogni altra coscienza; il soggetto si pone solo opponendosi: vuole affermarsi come “essenziale” e costituire l’Altro in “inessenziale”, in oggetto.  Solo che la coscienza dell’Altro gli oppone a sua volta la stessa pretesa: in viaggio il contadino si accorge, scandalizzato, che gli abitanti dei paesi vicini lo guardano a loro volta come uno straniero: fra villaggi, clan, nazioni, classi vi sono guerre, potlach, commerci, trattati, lotte che tolgono al concetto di Altro il suo senso assoluto e ne svelano la relatività; volenti o nolenti, individui e gruppi sono obbligati a riconoscere la reciprocità del loro rapporto.
Perché dunque questa reciprocità non ha preso rilievo tra i sessi, perché uno dei termini si è affermato come il solo essenziale, abolendo ogni relatività in rapporto al suo correlativo, definendo quest’ultimo come pura alterità? Perché le donne non contestano la sovranità maschile? Non v’è soggetto che si proponga immediatamente e spontaneamente come inessenziale; non è l’Altro che definendosi tale definisce l’Uno: è posto come l’Altro dall’Uno che si afferma Uno. Ma perché l’Altro a sua volta non si rifaccia Uno, occorre che esso si pieghi a codesto punto di vista estraneo. Donde viene alla donna una passività così grande? Si possono citare casi, nei quali, durante un tempo più o meno lungo, una categoria è riuscita a dominarne assolutamente un’altra. Spesso è l’ineguaglianza numerica a conferire tale privilegio: la maggioranza impone la sua legge alla minoranza, oppure la perseguita. Ma le donne non sono una minoranza, come i negri d’America o gli ebrei; ci sono tante donne quanti uomini sulla terra. Spesso i due gruppi in contrasto sono stati inizialmente indipendenti: un tempo si ignoravano, oppure ciascuno tollerava l’autonomia dell’altro; poi è sopravvenuto un avvenimento storico che ha subordinato il più debole al più forte; la diaspora giudaica, l’introduzione dello schiavismo in America, le conquiste coloniali sono avvenimenti che hanno una data. In questo caso per gli oppressi c’è stato un prima: essi hanno in comune un passato, una tradizione, talvolta una religione, una cultura. In questo senso avrebbe ragione Bebel quando avvicina le donne al proletariato; anche i proletari non sono in condizione d’inferiorità numerica e non hanno mai costituito una società per se stante. Tuttavia, se manca un avvenimento preciso, c’è uno sviluppo storico che spiega la loro esistenza come classe, e che rende conto della distribuzione di quegli individui in quella classe. I proletari non ci sono sempre stati: le donne sì; le donne sono donne per struttura fisiologica; fin dal più remoto passato furono subordinate all’uomo; la loro subordinazione non è la conseguenza di un fatto o di uno sviluppo, essa non è avvenuta. 
Una delle ragioni per cui l’alterità appare qui come un assoluto consiste appunto nell’eludere il carattere accidentale del fatto storico. Una situazione che si è creata attraverso il tempo può mutare nel futuro; i negri di Haiti, tra gli altri, lo hanno mostrato; ma una condizione naturale sembra sfidare ogni cambiamento. Pure la natura non è un dato più immobile della realtà storica. Se la donna ci appare come l’inessenziale che non torna mai all’essenziale, bisogna dire che è lei a non voler operare questo ritorno. I proletari dicono NOI; così i negri. Nel momento in cui si affermano come soggetti, essi cambiano in ‘altri’ i borghesi, i bianchi. Le donne –tranne in certi congressi che restano manifestazioni astratte –non dicono ‘noi’; gli uomini dicono ‘le donne’ e le donne si designano con questa stessa parola, ma non si affermano autenticamente quali soggetti. I proletari hanno fatto la rivoluzione in Russia, i negri ad Haiti, gli indocinesi si sono battuti in Indocina: l’azione delle donne non è mai stata altro che un movimento simbolico: esse hanno ottenuto ciò che gli uomini si sono degnati di concedere e niente di più non hanno strappato niente, hanno ricevuto. (5) Il fatto è che non hanno i mezzi concreti per raccogliersi in una unità in grado di porsi, opponendosi. Le donne non hanno un passato, una storia, una religione, non hanno come i proletari una solidarietà di lavoro e di interessi, tra loro non c’è neanche quella promiscuità nello spazio che fa dei negri d’America, degli ebrei dei ghetti, degli operai di Saint-Denis o delle officine Renault una comunità. Le donne vivono disperse in mezzo agli uomini, legate ad alcuni uomini – padri o mariti – più strettamente che alle altre donne; e ciò per i vincoli creati dalla casa, dal lavoro, dagli interessi economici, dalla condizione sociale. Le borghesi sono solidali con i borghesi e non con le donne proletarie; le bianche con gli uomini bianchi e non con le donne negre. Il proletariato può prefiggersi il massacro della classe dirigente; un ebreo, un negro fanatici potrebbero sognare di trafugare il segreto della bomba atomica e di fare un’umanità tutta ebrea o tutta negra: neanche in sogno la donna può sterminare i maschi. Il legame che la unisce ai suoi oppressori non si può paragonare ad alcun altro.  
La divisione dei sessi è un dato biologico, non un momento della storia umana. La loro opposizione si è delineata entro un Mitsein originale e non è stata infranta. La coppia è un’unità fondamentale le cui metà sono connesse indissolubilmente l’una all’altra. Nessuna frattura della società in sessi è possibile. Ecco ciò che essenzialmente definisce la donna: essa è l’Altro nel seno di una totalità, i cui due termini sono indispensabili l’uno all’altro. Né tale reciprocità le ha facilitato l’affrancarsi, come potremmo supporre; quando Ercole fila la lana ai piedi di Onfale, il desiderio lo incatena; perché Onfale non è riuscita a conquistarsi un potere duraturo? Per vendicarsi di Giasone, Medea uccide i figli; questo selvaggio mito fa pensare che dal legame col figlio la donna avrebbe potuto ricavare un temibile ascendente. Aristofane si è divertito a immaginare in Lisistrata un’assemblea di donne accomunate dal desiderio di sfruttare, per fini sociali, il bisogno che gli uomini hanno di loro; ma non è che una commedia. La leggenda racconta che le Sabine rapite opposero ai loro rapitori una sterilità ostinata, ma racconta anche che gli uomini, battendole con sferze di cuoio, ebbero magicamente ragione della loro resistenza. La necessità biologica – desiderio sessuale e desiderio di una prole – che sottomette il maschio alla femmina, non ha riscattato socialmente la donna. Anche il padrone e lo schiavo sono uniti da un bisogno economico reciproco che tuttavia non affranca lo schiavo. Perché nel rapporto tra padrone e schiavo, il padrone non pone il bisogno che ha dell’altro; egli ha il potere di soddisfare questo desiderio e non ne fa oggetto di mediazione; viceversa lo schiavo, nel suo stato di dipendenza, per speranza o per paura, interiorizza il bisogno che ha del padrone; anche se l’urgenza del bisogno fosse pari in ambedue, tornerebbe sempre a favore dell’oppressore contro l’oppresso; così si spiega, per esempio, perché la liberazione della classe operaia sia stata tanto lenta. 
Ora, la donna è sempre stata, se non la schiava, la suddita dell’uomo. I due sessi non si sono mai divisi il mondo in parti uguali e ancora oggi, nonostante la sua condizione stia evolvendosi, la donna è gravemente handicappata. Si può dire che in nessun paese l’uomo e la donna hanno una condizione legale paritetica e spesso la differenza va a duro svantaggio della donna. Anche se astrattamente le sono riconosciuti dei diritti, una lunga abitudine impedisce che essi trovino nel costume la loro espressione concreta. Economicamente uomini e donne costituiscono quasi due caste; a parità di condizioni i primi hanno situazioni più favorevoli, salari più elevati, maggiori probabilità di riuscita di codeste competitrici troppo recenti; gli uomini occupano nell’industria, nella politica ecc. un numero assai più grande di posti e detengono le cariche più importanti. Oltre la forza concreta, posseggono un prestigio del quale l’educazione dell’infanzia tramanda la tradizione: il presente assorbe il passato, e nel passato la storia è stata fatta dai maschi.  
Nel momento in cui le donne cominciano a prender parte all’elaborarsi dei fatti umani nel mondo, si trovano davanti a un mondo che appartiene ancora agli uomini; i quali non mettono in dubbio i propri diritti, mentre le donne incominciano appena a farlo. Rifiutare di essere l’Altro, rifiutare la complicità con l’uomo significherebbe per loro rinunciare a tutti i vantaggi che porta con sé l’alleanza con la casta superiore. L’uomo-sovrano proteggerà materialmente la donna vassalla e penserà a giustificarne l’esistenza; sottraendosi al rischio economico, ella scansa il rischio metafisico di una libertà che deve creare i propri fini senza concorso altrui. In realtà ogni individuo, oltre all’esigenza di affermarsi come soggetto, che è una esigenza etica, porta in sé la tentazione di fuggire la propria libertà e di tramutarsi in cosa; è un cammino nefasto perché passivo, alienato, perduto, in cui l’individuo entra nel gioco di volontà estranee, è scisso dalla propria trascendenza, spogliato di ogni valore. Ma è un cammino agevole; si evita così l’angoscia e la tensione di una esistenza autenticamente vissuta. Quando l’uomo considera la donna come l’Altro, trova dunque in lei una complicità profonda. Così la donna non rivendica se stessa in quanto soggetto perché non ne ha i mezzi concreti, perché esperimenta il necessario legame con l’uomo senza porne la reciprocità, e perché spesso si compiace nella parte di Altro.  
Ma occorre formulare immediatamente una domanda: come è cominciata tutta questa storia? Si capisce che la dualità dei sessi, come ogni dualità, si sia tradotta in un conflitto. Non è altrettanto chiaro perché l’uomo abbia vinto in partenza. Infatti, sembra che la battaglia potesse esser vinta dalle donne o l’esito restare eternamente sospeso. Perché invece il mondo ha sempre appartenuto agli uomini e soltanto oggi le cose incominciano a cambiare? Questo cambiamento è un bene? Condurrà o no a una uguale spartizione del mondo tra uomini e donne? Queste domande non sono nuove: hanno già avuto una quantità di risposte; ma proprio il fatto che la donna è l’Altro nega ogni valore alle spiegazioni degli uomini, troppo evidentemente dettate dal loro interesse. “Tutto ciò che hanno scritto gli uomini sulle donne deve esserci sospetto, perché essi sono al tempo stesso giudici e parti in causa”, ha detto nel XVII secolo Poulain de la Barre, un femminista poco noto. Dovunque, in ogni tempo i maschi hanno ostentato la soddisfazione che provano nel sentirsi i re della creazione. “Benedetto sia Dio nostro Signore e Signore di tutti i mondi per non avermi fatto donna” dicono gli ebrei nelle preghiere mattutine; mentre le loro spose mormorano con rassegnazione: “Benedetto sia il Signore che mi ha creata secondo la sua volontà”. Tra i favori di cui Platone ringraziava gli dèi, il primo era che l’avessero creato libero e non schiavo, il secondo uomo e non donna. Ma i maschi non avrebbero fruito pienamente di questo privilegio se non l’avessero concepito come fondato nell’assoluto e nell’eternità: hanno cercato di trasformare in diritto il fatto della loro supremazia. “Coloro che hanno creato e compilato le leggi, essendo uomini, hanno favorito il loro sesso, e i giureconsulti hanno volto le leggi in princìpi”, dice ancora Poulain de la Barre. 
Legislatori, preti, filosofi, scrittori, dotti si sono accaniti a dimostrare che la condizione subordinata della donna era voluta in cielo e utile per la terra. Le religioni foggiate dagli uomini riflettono tale volontà di dominio: nei miti di Eva, di Pandora gli uomini hanno trovato armi. Hanno messo la filosofia, la teologia al loro servizio, come risulta dalle proposizioni citate di Aristotele e di S. Tommaso. Fin dall’antichità, scrittori satirici e moralisti si sono compiaciuti nel descrivere le debolezze femminili. Si sa quali violente requisitorie sono state indirizzate contro le donne attraverso tutta la letteratura francese: Montherlant riprende con minor vena la tradizione di Jean de Meung. Questa ostilità appare talvolta giustificata, spesso gratuita; a dire il vero, essa cela una volontà di autogiustificazione più o meno abilmente mascherata. “È più facile accusare un sesso che scusare l’altro”, dice Montaigne. In certi casi il modo di procedere è evidente. Colpisce, per esempio, che il codice romano per limitare i diritti della donna invochi “la debolezza di spirito, la fragilità del sesso” nel momento in cui, indebolendosi la famiglia, la donna diviene un pericolo per gli eredi maschi. È degno di nota che nel secolo XVI per tenere la donna maritata sotto tutela, si facesse appello all’autorità di S. Agostino, dichiarando che “la donna è una bestia, né salda né costante”, mentre la nubile è riconosciuta capace di amministrare i propri beni. Montaigne ha assai ben capito l’arbitrio e l’ingiustizia del destino attribuito alla donna: “Le donne non hanno per nulla torto quando rifiutano le regole che guidano il mondo, in quanto sono stati gli uomini a crearle senza di esse. È naturale che non corra buon sangue tra loro e noi”. Ma non arriva fino a farsi loro paladino.  
Solo nel XVIII secolo uomini profondamente democratici prendono a considerare la questione con obiettività. Diderot tra gli altri si adopera a mostrare che la donna è un essere umano come l’uomo. Poco più tardi Stuart Mill la difende con ardore. Ma questi filosofi sono di una imparzialità eccezionale. Nel XIX secolo la contesa femminista diventa di nuovo una lite settaria; una delle conseguenze della rivoluzione industriale è la partecipazione della donna al lavoro produttivo; a questo punto le rivendicazioni della donna escono dalla teoria e trovano certe basi economiche; di conseguenza i loro avversari si fanno più aggressivi; benché la proprietà fondiaria sia in parte detronizzata, la borghesia si aggrappa alla morale tradizionale che vede nella solidità della famiglia la garanzia della proprietà privata: essa pretende di legare la donna al focolare domestico con tanta maggior asprezza quanto più l’emancipazione femminile si fa minacciosa; perfino nella classe operaia, gli uomini hanno tentato di frenare questo moto di liberazione, perché le donne diventavano concorrenti pericolose, abituate come erano a lavorare a bassi salari. (6) 
Per provare l’inferiorità della donna, gli antifemministi hanno allora messo in campo non solo, come una volta, la religione, la filosofia e la teologia, ma anche la scienza: biologia, psicologia sperimentale ecc. Ciò che al massimo si accordava all’ ‘altro sesso’ era “l’uguaglianza nella differenza”. Questa formula ha avuto fortuna ed è molto significativa: è esattamente quella che usano le leggi Jim Crow a proposito dei negri d’America; ora, tale segregazione cosiddetta egualitaria serve unicamente a introdurre le più severe discriminazioni. Questa coincidenza non è affatto casuale: le giustificazioni sono le stesse, sia che si tratti di una razza o d’una classe o di un sesso ridotto in condizione d’inferiorità. L’eterno femminino equivale all’anima negra e al carattere ebraico. Il problema ebraico è d’altra parte nel suo insieme molto diverso dagli altri due: per l’antisemita l’ebreo non è tanto un essere inferiore quanto un nemico: perciò non gli vuole riconoscere un suo luogo nel mondo e cerca di annientarlo. Ma ci sono analogie profonde tra la situazione delle donne e quella dei negri: un medesimo paternalismo emancipa oggi le une e gli altri, e la casta in passato dominante vuole tenerli al “loro posto” cioè al posto che essa ha scelto per loro; in ambedue i casi si profonde in elogi più o meno sinceri sulle virtù del “buon negro” dall’anima incosciente, infantile, giocosa, del negro rassegnato, e della donna “veramente donna”, cioè frivola, puerile, irresponsabile, la donna sottomessa all’uomo. Nell’un caso come nell’altro la classe dominante trae argomento dallo stato di fatto ch’essa stessa ha creato. È noto il paradosso di Bernard Shaw: “L’americano bianco, in sostanza, relega il negro al rango di lustrascarpe: e ne conclude che è capace solo di lustrare le scarpe”. In ogni fatto analogo si ritrova questo circolo vizioso: quando un individuo o un gruppo di individui è tenuto in condizione d’inferiorità, esso è di fatto inferiore; ma bisognerebbe intendersi sul valore del verbo ‘essere’. La malafede consiste nell’attribuirgli un significato sostanziale, mentre ha il senso dinamico hegeliano: ‘essere’ è essere divenuto, è essere stato fatto nel modo che ci si manifesta. Sì, le donne nell’insieme sono oggi inferiori agli uomini, cioè vivono in una situazione che apre loro minori possibilità: il problema è di sapere se questo stato di cose deve perpetuarsi. Molti uomini se lo augurano: ben pochi hanno disarmato. 
La borghesia conservatrice seguita a vedere nell’emancipazione della donna un pericolo che minaccia la sua morale e i suoi interessi. Vi sono maschi che temono la concorrenza femminile. Uno studente dichiarava nell’Hebdo-Latin: “Ogni studentessa che diventa medico o avvocato ci ruba un posto”; costui non metteva certo in discussione i suoi diritti su questa terra. Gli interessi economici non sono i soli a entrare in gioco. Uno dei benefici che l’oppressione assicura agli oppressori è che il più umile di loro si sente superiore: un “povero bianco” del Sud degli Usa ha la consolazione di dire a se stesso che non è “uno sporco negro”; e i bianchi più fortunati sfruttano abilmente codesto orgoglio. Così il maschio più mediocre si sente di fronte alle donne un semidio. Per Montherlant era assai più facile sentirsi un eroe quando si paragonava a certe donne (del resto scelte a proposito), che quando dovette sostenere la sua parte di uomo in mezzo ad altri uomini: parte che molte donne hanno sostenuto meglio di lui. Per la stessa ragione nel settembre 1948 Claude Mauriac – di cui ognuno ammira la potente originalità – scriveva a proposito delle donne in uno dei suoi articoli sul Figaro Littéraire: “Noi ascoltiamo con aria (sic!) di educata indifferenza... la più brillante di loro, sapendo bene che la sua intelligenza riflette in modo più o meno vistoso idee che provengono da noi”. (7) È chiaro che l’interlocutrice non rifletteva le idee di Mauriac in persona, dato che non risulta ne abbia; è possibile che riflettesse idee di provenienza maschile: anche tra gli uomini ce ne sono alcuni che considerano come proprie certe opinioni create da altri; c’è da domandarsi se Mauriac non avrebbe motivo d’intrattenersi con un buon riflesso di Descartes, di Marx, di Gide piuttosto che con se stesso; da notare che con l’equivoco del ‘noi’, egli si identifica con S. Paolo, Hegel, Lenin, Nietzsche e dall’alto della loro grandezza guarda con sdegno al gregge delle donne che osano parlargli su un piede di uguaglianza; veramente ne conosco più d’una che non avrebbe la pazienza di accordare “un’aria di educata indifferenza” al signor Mauriac.  
Qui si vede bene come l’ingenuità maschile sia talvolta addirittura disarmante. Gli uomini traggono profitto dall’alterità della donna ancora in tante altre maniere più sottili. Essa è un sollievo miracoloso per tutti quelli che soffrono di complessi d’inferiorità: nessuno è di fronte alle donne più arrogante, aggressivo e sdegnoso dell’uomo malsicuro della propria virilità. Coloro che non si lasciano intimidire dai loro simili sono anche molto più disposti a riconoscere nella donna un loro simile; ma, ciononostante, il mito della femmina, dell’Altro è caro a tutti per molte ragioni. (8) Del resto sarebbe difficile biasimarli di non sacrificare volentieri tutti i benefici che ne ricavano: gli uomini sanno ciò che perdono rinunciando alla donna come la sognano oggi, ma non sanno che cosa potranno avere dalla donna di domani. Ci vuole molta abnegazione per smettere di considerarsi il Soggetto unico e assoluto. Del resto la gran maggioranza degli uomini non esprime apertamente questa presunzione. Non affermano l’inferiorità della donna: sono troppo penetrati dall’ideale democratico per non riconoscere in tutti gli esseri umani degli uguali. In seno alla famiglia la donna è apparsa al bambino, al giovane, rivestita della stessa dignità sociale degli adulti maschi; in seguito il giovane ha sperimentato nel desiderio e nell’amore la resistenza, l’indipendenza della donna desiderata e amata: marito, rispetta in lei la sposa e la madre, e nell’esperienza concreta della vita coniugale ella si afferma di fronte a lui come una libertà. E lui può dunque farsi la convinzione che non esista più gerarchia sociale tra i sessi e che, grosso modo, attraverso le differenze, la donna sia una uguale. Poiché tuttavia constata alcune inferiorità – di cui la più importante è l’incapacità professionale – le mette in conto alla natura.  
Con un atteggiamento di collaborazione e di benevolenza di fronte alla donna, l’uomo tematizza il principio dell’uguaglianza astratta; quanto all’inuguaglianza concreta, l’uomo la constata, ma non la pone. Non appena però entra in conflitto con la donna, la situazione si rovescia, l’uomo prende a tematizzare l’inuguaglianza concreta, e ciò gli porge il destro di negare perfino l’uguaglianza astratta. Perciò molti sono quasi in buona fede quando affermano che le donne sono in condizione di uguaglianza di fronte agli uomini e che non hanno niente da rivendicare, e al tempo stesso: che le donne non saranno mai in condizione d’uguaglianza di fronte agli uomini e che le loro rivendicazioni sono vane. Il fatto è che all’uomo riesce difficile misurare l’estrema importanza di certe discriminazioni sociali, che paiono esternamente insignificanti ma le cui ripercussioni morali e intellettuali sono tanto profonde nella donna da far credere che traggano origine dalla natura stessa. (9) L’uomo, anche se nutre la maggior simpatia possibile per la donna, non può rendersi veramente conto della sua situazione concreta. Perciò non è il caso di prestar fede ai maschi quando si affannano a difendere privilegi che in realtà non sanno misurare in tutta la loro portata.  
Noi non ci lasceremo intimidire dal numero e dalla violenza degli attacchi diretti contro le donne, né frodare dagli elogi interessati rivolti alla ‘vera donna’, né vincere dall’entusiasmo che suscita il suo destino in uomini che per niente al mondo vorrebbero condividerlo. Non dobbiamo tuttavia considerare con minor diffidenza gli argomenti dei femministi: assai spesso l’intenzione polemica toglie loro ogni valore. Se la “questione femminile” è tanto oziosa, ciò si deve al fatto che gli uomini ne hanno fatto una ‘disputa’ e quando si litiga non si ragiona più come si dovrebbe. Hanno cercato instancabilmente di provare che la donna è superiore, inferiore o uguale all’uomo; creata dopo Adamo, è certamente un essere secondario, hanno detto gli uni; nemmeno per sogno, hanno sostenuto gli altri, Adamo non era che un abbozzo e Dio ha raggiunto la perfezione dell’essere umano quando ha creato Eva: il suo cervello è più piccolo, ma è relativamente più grande: il Cristo si è fatto uomo – forse per umiltà. Ogni argomento chiama subito il suo contrario e spesso ambedue sono inconcludenti. Per tentare di vederci chiaro bisogna uscire da questi binari; bisogna respingere le vaghe nozioni di superiorità, inferiorità, uguaglianza che hanno guastato tutte le discussioni e ricominciare da capo. 
Ma allora in che termini porremo la questione? E innanzi tutto, chi siamo noi per porla? L’uomo è giudice e parte in causa, la donna pure. Dove trovare un angelo? In verità un angelo avrebbe ben poca voce in capitolo; i termini del problema gli resterebbero estranei; quanto all’ermafrodito, il suo è un caso particolare; non è uomo e donna insieme: direi piuttosto che non è né donna né uomo. Io credo che, per chiarire la situazione della donna, certe donne siano ancora le più adatte. Pretendere d’imprigionare Epimenide nella nozione di Cretese e i Cretesi in quella di bugiardo, è un sofisma: la buona e la cattiva fede non è dettata agli uomini e alle donne da una misteriosa essenza, è la loro situazione a inclinarli più o meno alla ricerca della verità. Molte donne d’oggi, che hanno avuto la fortuna di vedersi restituite le prerogative dell’essere umano, possono permettersi il lusso dell’imparzialità: ne proviamo addirittura il bisogno. Noi non dobbiamo più combattere come le nostre ave; nell’insieme abbiamo vinto la partita; nelle ultime discussioni sullo statuto della donna, l’Onu non ha smesso di affermare imperiosamente che l’eguaglianza dei sessi deve giungere a una completa attuazione, e già a molte di noi fu tolto di sperimentare la condizione femminile come un fastidio o un ostacolo; molti problemi ci appaiono più essenziali di quelli che ci riguardano particolarmente: questo stesso distacco ci permette di sperare che il nostro atteggiamento sia obiettivo. Inoltre la nostra conoscenza del mondo femminile è più profonda di quella che ne hanno gli uomini, perché in esso affondiamo le radici; noi captiamo più intimamente il significato che ha per l’essere umano il fatto di appartenere al sesso femminile; e c’interessa più davvicino il conoscerlo.  
Ho detto che ci sono problemi più essenziali; ciò non toglie che dei meno essenziali uno soprattutto conservi ai nostri occhi una certa importanza: in che senso il fatto di essere donne ha determinato la nostra vita? Quali possibilità esattamente ci furono offerte, e quali rifiutate? Che destino possono aspettarsi le nostre sorelle più giovani e in che direzione bisogna orientarle? Colpisce il fatto che ai nostri giorni, nell’insieme, la letteratura femminile sia animata più da uno sforzo di lucidità che da una volontà di rivendicazione; alla fine di un’era di polemiche disordinate, questo libro è un tentativo fra gli altri di fare il punto. Dobbiamo dire però che non c’è problema umano che si possa trattare senza un punto di vista preordinato: la maniera stessa di porre i problemi, le prospettive che si adottano presuppongono una gerarchia d’interessi; ogni qualità sottintende dei valori; non vi sono descrizioni che, pur pretendendosi obiettive, non abbiano uno sfondo etico. Invece di dissimularli, è meglio chiarire subito i princìpi più o meno esplicitamente sottintesi; così, non sarà necessario precisare a ogni pagina il significato che si dà alle parole: superiore, inferiore, migliore, peggiore, progresso, regresso ecc. 
Sfogliando alcune delle opere consacrate alla donna, vediamo che uno dei punti di vista adottati più di frequente è quello del bene pubblico, dell’interesse generale: in realtà ognuno intende con ciò l’interesse della società secondo ch’egli spera di confermarla o di stabilirla. A nostro giudizio non c’è altro bene pubblico all’infuori di quello che assicura il bene privato dei cittadini; giudichiamo le istituzioni dal punto di vista delle possibilità concrete che offrono agli individui. Né confondiamo l’idea d’interesse privato con quella di felicità: codesta è un’opinione che spesso trova credito; si dice: le donne dell’harem non sono forse più felici di un’elettrice? La massaia non è più felice dell’operaia? Non si sa bene che cosa significhi la parola felicità, e tanto meno quali valori autentici nasconda; non è assolutamente possibile misurare la felicità degli altri ed è troppo facile dichiarare fortunata la situazione che si vuole loro imporre: in particolare, col pretesto che la felicità è immobilità, si dichiarano felici coloro che vengono condannati a una esistenza stagnante.
Noi non prestiamo fede a tutto ciò. Il punto di vista che adottiamo è quello della morale esistenzialista. Ogni soggetto si pone concretamente come trascendenza attraverso una serie di finalità; esso non attua la propria libertà che in un perpetuo passaggio ad altre libertà; la sola giustificazione dell’esistenza presente è la sua espansione verso un avvenire indefinitamente aperto. Ogni volta che la trascendenza ripiomba nell’immanenza v’è uno scadere dell’esistenza nell’ ‘in sé’, della libertà nella contingenza; tale caduta è una colpa morale se è accompagnata dal consenso del soggetto; ma se gli è imposta prende l’aspetto di una privazione e di una oppressione; in ambedue i casi è un male assoluto. Ogni individuo che vuol dare un significato alla propria esistenza, la sente come un bisogno infinito di trascendersi. Ora, la situazione della donna si presenta in questa singolarissima prospettiva: pur essendo come ogni individuo umano una libertà autonoma, ella si scopre e si sceglie in un mondo in cui gli uomini le impongono di assumere la parte dell’Altro; in altre parole, pretendono di irrigidirla in una funzione di oggetto e di votarla all’immanenza perché la sua trascendenza deve essere perpetuamente trascesa da un’altra coscienza essenziale e sovrana. Il dramma della donna consiste nel conflitto tra la rivendicazione fondamentale di ogni soggetto che si pone sempre come essenziale e le esigenze di una situazione che fa di lei un inessenziale. 
Data questa sua condizione, in che modo potrà realizzarsi come essere umano? Quali vie le sono aperte? quali finiscono in un vicolo cieco? come trovare l’indipendenza nella dipendenza? quali circostanze limitano la libertà della donna? E sarà in grado di superarle? Questi sono i problemi fondamentali che vorremmo chiarire. Il che equivale a dire che non porremo la sorte dell’individuo in termini di felicità, ma in termini di libertà. È evidente che un tale problema non avrebbe senso se supponessimo che sulla donna pesi un destino fisiologico, psicologico o economico. Perciò cominceremo col discutere i punti di vista della biologia, della psicanalisi, del materialismo storico. In un secondo tempo tenteremo di mostrare come è nata ed è cresciuta la "realtà femminile", perché la donna è stata definita come l’Altro e quali furono le conseguenze del punto di vista maschile. E allora descriveremo, secondo il punto di vista delle donne, il mondo quale è stato loro proposto e potremo capire in che difficoltà si imbattono quando, nel tentativo di evadere dalla sfera loro finora assegnata, cercano di partecipare al Mitsein  umano. (10)

 OPERE CITATE 

  1. Ora sparito, si intitolava Franchise
  2. Il Rapporto Kinsey, per esempio, si limita a definire i caratteri sessuali dell’uomo americano; cosa assolutamente diversa.
  3. Questa idea è stata esposta nella sua forma più esplicita da E. Lévinas nel saggio su Le temps et l’Autre. Egli afferma: “Non potrebbe darsi una situazione in cui l’alterità fosse portata da un essere a titolo positivo, come essenza? Qual è l’alterità che non entra puramente e semplicemente nell’opposizione di due specie dello stesso genere? Penso che il contrario assolutamente contrario, la cui opposizione non è minimamente influenzata dal rapporto che può stabilirsi tra lui e il suo correlativo, l’opposizione che permette al termine di restare assolutamente altro, è il femminile. Il sesso non è una differenza specifica qualsiasi… La differenza tra i sessi non è una contraddizione… Essa non è neanche la dualità di due termini complementari perché due termini complementari presuppongono un tutto preesistente… L’alterità si compie nel femminile. Termine di pari livello ma di senso opposto alla coscienza”.
  4. Suppongo che Lévinas non dimentichi che la donna è anche di per sé coscienza. Ma è degno di nota che egli adotti deliberatamente un punto di vista maschile senza porre in evidenza la reciprocità del soggetto e dell’oggetto. Quando scrive che la donna è mistero, è sottinteso che ella è mistero per l’uomo. Cosicché questa descrizione che vorrebbe essere obiettiva è in realtà un’affermazione del privilegio maschile
  5. Vedi C. Lévi-Strauss, Les structures élémentaires de la parenté. Ringrazio C. Lévi-Strauss di avermi comunicato le bozze della sua tesi che ho largamente utilizzato nella seconda parte (pp. 96109).
  6. Cfr. II parte, V.
  7. Vedi II parte
  8. O almeno credeva di poter scrivere.
  9. È significativo l’articolo di Michel Carrouges su questo argomento, apparso nel n. 292 dei Cahiers du Sud. Egli scrive indignato:”Vorrebbero che non ci fossero miti della donna, ma soltanto una schiera di cuoche, di matrone, di donnine allegre, di saccenti destinate al piacere o all’utile!”. È come dire che per lui la donna non ha una propria esistenza; egli ne considera soltanto la funzione nel mondo maschile: la sua finalità è nell’uomo; allora veramente è preferibile la “funzione” poetica a tutte le altre. Il problema consiste precisamente nel sapere perché si dovrebbe continuare a definirla in relazione all’uomo. Per esempio l’uomo afferma che il fatto che la moglie non abbia un mestiere non la diminuisce affatto ai suoi occhi: il compito che assolve presso il focolare domestico è altrettanto nobile ecc. Tuttavia alla prima lite esclama: “Saresti incapace di guadagnarti la vita senza di me”
  10. Descrivere questo processo sarà precisamente il compito del Libro secondo
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