vittorio alfieri: volli, e volli sempre, e fortissimamente volli

Valerio Adami – Vittorio Alfieri

Ideare stendere e verseggiare

Brano tratto da “Vita scritta da esso”, Epoca IV, capitolo 4

E qui per l’intelligenza del lettore mi conviene spiegare queste mie parole di cui mi vo servendo sì spesso, ideare, stendere, e verseggiare. Questi tre respiri con cui ho sempre dato l’essere alle mie tragedie, mi hanno per lo più procurato il beneficio del tempo, così necessario a ben ponderare un componimento di quella importanza; il quale se mai nasce male, difficilmente poi si raddrizza. Ideare dunque io chiamo, il distribuire il soggetto in atti e scene, stabilire e fissare il numero dei personaggi, e in due paginucce di prosaccia farne quasi l’estratto a scena per scena di quel che diranno e faranno. Chiamo poi stendere, qualora ripigliando quel primo foglio, a norma della traccia accennata ne riempio le scene dialogizzando in prosa come viene la tragedia intera, senza rifiutar un pensiero, qualunque ei siasi, e scrivendo con impeto quanto ne posso avere, senza punto badare al come. Verseggiare finalmente chiamo non solamente il porre in versi quella prosa, ma col riposato intelletto assai tempo dopo scernere tra quelle lungaggini del primo getto i migliori pensieri, ridurli a poesia, e leggibili. Segue poi come di ogni altro componimento il dover successivamente limare, levare, mutare; ma se la tragedia non v’è nell’idearla e distenderla, non si ritrova certo mai più con le fatiche posteriori. Questo meccanismo io l’ho osservato in tutte le mie composizioni drammatiche cominciando dal Filippo, e mi son ben convinto ch’egli è per sé stesso più che i due terzi dell’opera. Ed in fatti, dopo un certo intervallo, quanto bastasse a non più ricordarmi affatto di quella prima distribuzione di scene, se io, ripreso in mano quel foglio, alla descrizione di ciascuna scena mi sentiva repentinamente affollarmisi al cuore e alla mente un tumulto di pensieri e di affetti che per così dire a viva forza mi spingessero a scrivere, io tosto riceveva quella prima sceneggiatura per buona, e cavata dai visceri del soggetto. Se non mi si ridestava quell’entusiasmo, pari e maggiore di quando l’avea ideata, io la cangiava od ardeva. Ricevuta per buona la prima idea, l’adombrarla era rapidissimo, e un atto il giorno ne scriveva, talvolta più, raramente meno; e quasi sempre nel sesto giorno la tragedia era, non dirò fatta, ma nata. In tal guisa, non ammettendo io altro giudice che il mio proprio sentire, tutte quelle che non ho potuto scriver così, di ridondanza e furore, non le ho poi finite; o, seppur finite, non le ho mai poi verseggiate.
[…]
Dal metodo ch’io qui ho prolissamente voluto individuare, ne è poi forse nato l’effetto seguente: che le mie tragedie prese in totalità, tra i difetti non pochi ch’io vi scorgo, e i molti che forse non vedo, elle hanno pure il pregio di essere, o di parere ai più, fatte di getto, e di un solo attacco collegate in sé stesse, talché ogni parola e pensiero ed azione del quint’atto strettamente s’immedesima con ogni pensiero parola e disposizione del quarto risalendo sino ai primi versi del primo: cosa, che, se non altro, genera necessariamente attenzione nell’uditore, e calor nell’azione. Quindi è, che stesa così la tragedia, non rimanendo poi all’autore altro pensiere che di pacatamente verseggiarla scegliendo l’oro dal piombo, la sollecitudine che suol dare alla mente il lavoro dei versi e l’incontentabile passione dell’eleganza, non può più nuocer punto al trasporto e furore a cui bisogna ciecamente obbedire nell’ideare e creare cose d’affetto e terribili.

Mirra è una tragedia di parola, con punte di alto lirismo, pervasa da toni meditativi, malinconici e contenuti, in netto contrasto con la forza delle passioni che muovono i personaggi. È il conflitto interiore della protagonista il motore del dramma: l’azione è determinata dalle reazioni, anche solo emotive, degli altri personaggi, tutti uniti da un comune sentire, ovvero Mirra e la sua felicità. I personaggi si possono associare a coppie di due: da una parte Ciniro e Pereo, espressione di una stessa tipologia d’uomo, nobili d’animo prima ancora che per discendenza, onesti e leali, l’uno però forte e deciso, anche grazie alla sua esperienza e all’età matura; l’altro ancora acerbo e molto insicuro, soprattutto a causa del dolore che gli provoca il suo amore non corrisposto. L’altra coppia è quella costituita da Cecri ed Euriclea, che vivono una competizione, a tratti celata a tratti incontenibile, nell’aggiudicarsi il primato di “madre”. Cecri, regina altera e apparentemente algida, scoprirà il suo amore sincero di madre solo alla fine del dramma. Euriclea è invece nutrice affezionata e pervasa da un sentimento incondizionato, ma di fronte al malessere della fanciulla, si scontra con l’impossibilità di agire e con la necessità di appellarsi alla “madre vera”. In mezzo a questi due poli, Mirra travolta da una lotta durissima, che è tutta interiore, perché, come dice Ovidio, «odiare il padre è un delitto ma amarlo è un delitto ancor più grave». La sua feroce solitudine la spinge ad una sorta di esilio volontario legato all’odio per sé stessa, per le convenzioni sociali, e adiritura per le persone che ama sopra tutte le altre. Il Coro di voci maschili – non presente sulla scena – innalzando canti propiziatori, avrà il compito, al momento del matrimonio, di enfatizzare l’evidente gap che separa tragicamente Mirra e gli altri personaggi, che si delineano come spettatori del dramma in atto, più che come attori. In contrasto, il coro di voci femminili che, carico di sarcasmo ed espressione dell’io frantumato di Mirra — il cui sdoppiamento è simbolicamente rappresentato dalle due statue in scena — e voce del suo dissenso al matrimonio, nonché concausa del suo cedimento finale. Le musiche, originali, esprimeranno la tensione emotiva, sottolineando il vuoto creato intorno al personaggio di Mirra e le ansie e i sentimenti di coloro che la circondano. La tragedia si svolgerà nel giorno che delle nozze, in una scena che è, in realtà, un’astrazione atemporale della reggia di Cipro. Intensi i colori degli abiti, ad eccezione di quello di Mirra, virginale futura sposa, chiusa in una sobria veste, quasi candida, che diventerà simbolo della prigione nella quale il personaggio sta per rinchiudersi volontariamente. Il contrasto fra ciò che accade sulla scena ed il mondo interiore che si agita nella protagonista, sconvolgendola, sarà accentuato da alcune proiezioni, simboliche espressioni del turbinio di emozioni e sentimenti da cui è travolta Mirra.

Saul di Vittorio Alfieri – 1959-con GianMaria Volonte’ ,Salvo Randone, Nando Gazzolo,Valentina Fortunato,Mario Feliciani,Augusto Mastrantoni

Oreste di Vittorio Alfieri – 1958 con Vittorio Gassman, Elena Zareschi ,Mario Feliciani, Edmonda Aldini,Giulio Bosetti

La morte di Agamennone

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