in/comunicare

incomuDovendo presentare questo progetto, tanto vale cominciare davvero dall’inizio, cercando di capire di che cosa parliamo quando parliamo di comunicazione o, meglio, di in/comunicazione. Il termine “comunicazione” deriva etimologicamente dal latino communis (comune), composto di cum (insieme) e munis (obbligazione, dono). Alla base della comunicazione, almeno nelle sue origini etimologiche, ci sono quindi le idee di reciprocità e di vincolo, che sono anche alla base – guarda caso – della vita sociale. Va detto subito che questa idea della condivisione non deve necessariamente evocare scenari idilliaci dove tutti vivono in una “comunità felice”, solidali e premurosi gli uni nei confronti degli altri: spesso, anzi, comunicare significa entrare in conflitto, litigare, essere in disaccordo. È un po’ come quando si dice “tra quei due non c’è dialogo”: come se il dialogo fosse solo fraterno e pacifico scambio di vedute, e non invece (anche) il luogo dove si cerca di imporsi nei confronti dell’altro, di far valere le proprie ragioni, magari screditando quelle altrui.

A questo punto, possiamo dire di più: e cioè che, come recita un vecchio adagio degli studi sulla comunicazione, “non si può non comunicare” (non si può in-comunicare?). In ogni situazione le persone comunicano, che lo vogliano o no: quando arrossisco in preda all’imbarazzo, quando le mie mani tremano per l’emozione, quando la mia voce è rotta per la commozione… Ogni comportamento che manifestiamo di fronte ad altre persone ha valore comunicativo, da quelli volontari a quelli involontari; da quelli che mettiamo in scena a quelli che preferiremmo evitare ma che non possiamo controllare.

Possiamo anche prendere per buono questo postulato, almeno per ora. Del resto, tutto attorno a noi sembra comunicare incessantemente. Più che di non-comunicazione, sembrerebbe di trovarsi di fronte a continui eccessi di comunicazione, dove anche i momenti di silenzio riportano in realtà a un silenzio ingannevole, a un silenzio che vuole qualcosa in cambio: come le copertine bianche dei periodici, le pubblicità in bianco e nero; gli spot senza sonoro, il cui silenzio è più che mai assordante; o i politici che si imbavagliano per “urlare” le proprie rivendicazioni. Di nuovo, un silenzio che è rumore, un eccesso di comunicazione.

Insomma, per rimanere fedeli al titolo del progetto, In-comunicazione, sembrerebbe proprio che anche ciò che all’apparenza non comunica, in realtà, abbia sempre qualcosa da dirci, magari fingendo di non dircelo. Si mette, cioè, in comunicazione. Ma a questa dimensione, che potremmo definire di mala fede comunicativa, se ne affianca un’altra, che non è più di finzione, ma semmai – al contrario – di “smascheramento”: si tratta di un’operazione dove il contenuto comunicativo viene “ricodificato”, per svelarne le reali implicazioni o per modificarne il significato. In questo modo, quello che sembrerebbe un limite, la non-comunicazione, diviene il contrario, viene messo in comunicazione, attraverso il ri-uso, la ricodifica.

Un esempio di questa “tattica” è quello di alcune modalità comunicative tipiche di certe sottoculture giovanili, come la sottocultura punk. Una strategia comunicativa per cui sono divenuti famosi i punk è stata quella di prendere un oggetto fortemente connotato come tradizionale e “borghese” e usarlo in maniera innovativa, irriverente e iconoclasta. L’esempio che più spesso si cita per illustrare questa pratica è quello della spilla da balia, usata dai punk come piercing piuttosto che per l’uso per cui era stata originariamente concepita (unire i lembi di un pannolino o quelli di una gonna): l’utilizzo “deviante” della spilla ha finito per produrre un altro oggetto, con usi e significati completamente differenti.

Qualcosa di molto simile avviene nel mondo delle arti, che anzi hanno inaugurato questa strategia, soprattutto nelle pratiche comunicative delle avanguardie. Si pensi all’orinatoio di Duchamp, trasformato da umile oggetto del retroscena della vita quotidiana a opera d’arte (rinominata Fontana). Nella comunicazione artistica tutto ciò che è apparentemente incomunicabile – o incomunicante – costringe a soffermarsi su di esso per cercare di comprenderlo, uscendo da schemi e codici consueti, per sperimentarne di nuovi. La Fontana di Duchamp ci lancia un messaggio che sembra un nonsense: “Non sono un’opera d’arte, eppure sono un’opera d’arte”. E così, noi siamo costretti a rivedere le nostre categorie – su che cosa è arte, su chi è l’artista, su cosa significa comunicare (o incomunicare).

backstage

I lavori presentati qui fanno proprio questo: prendono oggetti, luoghi, suoni più o meno incomunicanti e, ribaltandone i codici, li fanno parlare. Soprattutto, li fanno diventare altro. Per capirli. Per farceli capire. Per individuarne nuovi possibili significati, nuovi possibili usi. Il tono è spesso polemico, provocatorio, ma del resto lo si è già visto: comunicare vuol dire soprattutto buttarsi nella mischia, accettare il conflitto. In definitiva le arti, nella loro continua ricodifica e deformazione della realtà, ce la fanno capire meglio. Magari facendoci scontare un certo disagio, un certo spaesamento. Ma è un prezzo che è bene pagare: del resto, l’arte non imita la vita. L’arte – quella migliore – irrita la vita.

Il progetto In/comunicare si configura quindi come un percorso ampio e articolato che, tra gennaio e maggio 2011, ha visto succedersi ed intrecciarsi laboratori multidisciplinari nella speranza che si riesca ad entrare realmente in comunicazione.

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